Napoli
11 febbraio 2004. Cielo nero carico di pioggia. Abbandono Chiaia e i
quartieri alti verso mezzogiorno, per farmi inghiottire dalla città: giù
per le scalette e via per Spaccanapoli, dall’alto è come un canyon, le
case come pareti di roccia che
strapiombano nel mare umano chiassoso colorato e in continuo movimento.
La colonna sonora è quella della città: rumori di traffico, mercato,
lingue e dialetti che si incrociano; anche gli odori sono cittadini, ma
le forme e i colori sono straordinari: palazzi enormi con portoni da
giganti, facciate fatiscenti tappezzate di lenzuola, ricchi palazzi
colorati di rosso grigio e nero e bancherelle infinite di pesci,
molluschi, di verdure per noi rare, di libri usati, di tutto usato, di
biancheria intima, super intima, quasi da troie; strade lastricate
lucide e nere, San Gregorio e i suoi presepi, una pizza da Sorbillo e un
caffè in Piazzetta Nilo: insomma la solita bellissima Napule. Comincio a
capire il mal d’Africa: anche Napoli è un po’ africana o forse l’Africa
è Napoli, un meraviglioso mercato senza fine. “ E dio, un brutto
giorno, creò la padania, poi accortosi dell’errore inventò la nebbia!”
antico proverbio napoletano.
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