lunedì 26 marzo 2012

Napoli


Napoli 11 febbraio 2004. Cielo nero carico di pioggia. Abbandono Chiaia e i quartieri alti verso mezzogiorno, per farmi inghiottire dalla città: giù per le scalette e via per Spaccanapoli, dall’alto è come un canyon, le case come pareti di roccia che strapiombano nel mare umano chiassoso colorato e in continuo movimento. La colonna sonora è quella della città: rumori di traffico, mercato, lingue e dialetti che si incrociano; anche gli odori sono cittadini, ma le forme e i colori sono straordinari: palazzi enormi con portoni da giganti, facciate fatiscenti tappezzate di lenzuola, ricchi palazzi colorati di rosso grigio e nero e bancherelle infinite di pesci, molluschi, di verdure per noi rare, di libri usati, di tutto usato, di biancheria intima, super intima, quasi da troie; strade lastricate lucide e nere, San Gregorio e i suoi presepi, una pizza da Sorbillo e un caffè in Piazzetta Nilo: insomma la solita bellissima Napule. Comincio a capire il mal d’Africa: anche Napoli è un po’ africana o forse l’Africa è Napoli, un meraviglioso mercato senza fine. “ E dio, un brutto giorno, creò la padania, poi accortosi dell’errore inventò la nebbia!” antico proverbio napoletano.
 

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